Social e minori, si è perso il senso reale della vita

L’analisi dello psicologo Iztok Spetič: “I genitori non possono abdicare allo specifico ruolo educativo”
Emergenza psicologica ed emergenza esistenziale. Dal Blue whale a Tik Tok l’onda del disagio giovanile, e non solo, visto che anche gli adulti ‘frequentano’ queste piattaforme, è esploso con i tragici fatti di cronaca che hanno visto protagonisti bambini coinvolti in assurde sfide con la morte. Maledette challanges che strangolano, impiccano e uccidono. Di fronte a malinconia, depressione e mancanza di significato da attribuire alla vita non basta un algoritmo algebrico per risolvere il male di vivere. Abbiamo consultato lo psicologo Iztok Spetič, consigliere dell’Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia ed esperto della tematica social e minori.

lo psicologo Iztok Spetič
Dottore, come si è arrivati a questo cortocircuito esistenziale che si manifesta proprio con l’utilizzo dei social e mette in luce una generazione di male-educati? “Ripeto sempre che l’utilizzo dei social, come pure l’utilizzo degli altri strumenti, dai tablet agli smartphone, non dovrebbe mai avvenire senza il controllo dei genitori, almeno fino alle superiori. Eppure se riflettiamo su un dato statistico, i genitori consegnano ai figli prima lo smartphone e poi le chiavi di casa, possiamo intuire che sono saltate le priorità educative”.
Quindi la colpa è dei genitori che non educano e non controllano i figli? “E’ evidente che i genitori non comprendono che dare prima gli strumenti tecnologici significa aprire ai figli le chiavi universali per raggiungere il mondo globale, quindi anche piattaforme non adatte alle fasce d’età, come pure informazioni non opportune e piazze virtuali, che spesso diventano tragicamente reali, da evitare. Ai genitori chiedo sempre se lasciano andare in bicicletta i loro bambini prima che sappiano pedalare in sicurezza”.
Questo significa che i genitori sono sempre più irresponsabili? “Bisogna richiamare i genitori ad una precisa assunzione di responsabilità: guardare, ascoltare e soprattutto ‘stare’ con i loro figli. Sicuramente è assolutamente non indicato lasciare i bambini piccoli, in età prescolare, da soli con tablet e smartphone; discorso diverso invece se con questi device i genitori impiegano del tempo con i figli per finalità didattiche e giochi educativi grazie anche ad App specifiche, e non certo per far svolgere ai tablet il ruolo di babysitting surrogato”.
E per i più grandi invece? “I genitori dovrebbero procedere gradualmente: il primo telefono in prima media non può essere la porta verso il mondo, è sbagliatissimo! Diamo all’inizio un telefono-base, solo per comunicare, non per navigare, senza internet. Questo non solo per evitare che i figli incappino nella rete schiacciante ma anche per costringerli a parlare, attività sempre più rara visto che il telefonino viene usato soprattutto per mandare messaggi con abbreviazioni e faccine oppure per navigare. Le statistiche parlano chiaro: le generazioni cresciute a suon di smartphone non sanno comunicare in maniera normale, bensì solo tramite sistemi di messaggistica per altro alterata e linguisticamente povera”.
Statistiche: solo una minoranza di genitori conosce la password del telefono dei figli… “I figli devono essere accompagnati nell’uso consapevole del telefono e dei social. Spesso i genitori mi chiedono come devono comportarsi e io spiego che non si provocano certo traumi a dire di no… purtroppo la generazione dei genitori odierni ha perso la capacità di dire di no, cerca una relazione paritaria che è sbagliatissima, non è in grado di fissare dei limiti. Ad esempio se il figlio frequenta le medie il genitore può concedere l’uso di whatsapp solo dal proprio telefono. Certo, i genitori devono saper usare loro stessi con criterio questi strumenti e dare il buon esempio in prima persona: se anche loro stanno incollati ai social, ovvio che i bambini li copiano. Ripeto sempre: pc, tablet vanno usati in un ambiente comune, in modo che ci siano controllo e condivisione”.
Qualcuno ha attribuito alla pandemia e alla didattica a distanza questo disagio, sebbene le scuole elementari e medie siano quasi dappertutto rimaste aperte, lei cosa ne pensa? “Questi fenomeni sono iniziati ben prima della pandemia. Inoltre, la didattica a distanza o integrata non può essere sempre la scusa. Il punto è che i genitori devono fare i genitori, essere recettivi, saper riconoscere e ascoltare i disagi dei figli. Se manca l’ascolto, allora i figli cercano altre vie di comunicazione e vanno a caccia, sbagliando, di risposte sui social. Non è questa la via”.
Sembra essersi frantumato il confine reale/virtuale, non si è più capaci di distinguere le prove reali che la vita ci pone di fronte dalle prove virtuali che portano alla morte, come mai? “Sicuramente bisogna recuperare il reale e dargli un significato. I bambini e gli adolescenti spesso comunicano con noi attraverso il corpo. A volte l’unico modo per avere l’illusione di controllare la situazione è controllare il proprio corpo e le sensazioni di dolore che possono auto-provocarsi. Si tratta di un atteggiamento deviato e malato che qualcuno ritrova nei social, Tik tok ed altri luoghi simili. In altre parole, si pensa che, non riuscendo ad esercitare il dominio su nulla, si possa almeno governare il corpo sfidando la morte per dimostrare che si è capaci di avere il potere sulle reazioni del corpo. Siamo di fronte al rovesciamento di tutti i significati: quello della vita, della morte, della sfida, delle prove. Bisogna recuperare il valore autentico di queste parole che sono state capovolte dai social e in parte anche dalla pandemia che ha scosso il tabù della morte. Qualcuno pensa di sfidare la morte per dimostrare che la supera per riuscire a sentirsi vivo.
La pandemia ha fatto sperimentare ai bambini, ai ragazzi e agli adulti la solitudine, l’isolamento, la mancanza di rapporti sociali, è così? “Per la prima volta abbiamo usato grazie alla pandemia i ‘social’ per come dovrebbero essere usati ma ci siamo resi conto che i rapporti virtuali non possono sostituire quelli reali. Sperimentare una mancanza crea quel vuoto necessario che prelude all’affacciarsi del desiderio. Approfittiamo del desiderio e del bisogno di contatti reali. Stimoliamo questa spinta verso l’altro e parliamone con i nostri figli, rendendoli consapevoli della grossa differenza tra reale e virtuale. La crisi pandemica, come ogni crisi, implica un cambiamento. E’ importante cogliere quello che c’è di positivo e sfruttarlo. Certo bisogna recuperare il ruolo educativo dei genitori come pure il discorso sulla relazione fra libertà e responsabilità. Troppo spesso anche gli adulti sono soggiogati dai social”.
In altre parole si deve ricostruire un alfabeto concreto riferito ad un’esistenza reale con sfide reali, prove vere e un’esistenza autentica. Anziché vittime dei social e della tecnologia, dobbiamo imparare ad essere autori della nostra vita.
Scritto da Irene Giurovich
dalla rubrica PSICOLOGICAMENTE
de IL PAîS gente della nostra terra edizione cartacea di febbraio 2021
