Cento mila esuli giuliano dalmati a Udine dal 1945 al 1960
In via Pradamano sono passati più di centomila giuliani, istriani e dalmati e qualche balcanico in fuga dal comunismo. A Udine essi hanno trovato bene o male un alloggio e un po’ di solidarietà prima di proseguire verso altri Centri raccolta profughi su scala nazionale, oppure emigrando in Australia, Canada, USA e Brasile.
La prima grande città italiana, dal confine iugoslavo, era Udine, dato che Trieste, fino al 1954, era occupata dagli Alleati, nell’effimero Territorio Libero di Trieste.
Pochi conoscono il ruolo rivestito da Udine nell’accoglienza a tante famiglie di esuli obbligati, avendo optato per la cittadinanza italiana, a lasciare le loro terre e i loro beni. Anche la cifra di oltre centomila profughi giuliano dalmati transitati qui viene ricordata solo da qualche friulano.
Certo che il Campo, gestito dal Ministero degli Interni, non era un hotel di lusso. C’erano grandi camerate divise da divisori con vecchie coperte, letti a castello e bucati stesi. La cucina era merito delle brave cuoche istriane per la mensa comune con stoviglie di latta. Le famiglie si arrangiavano come potevano. In Campo profughi c’erano anche un medico, l’infermeria e la messa la domenica; vi partecipava anche la gente del quartiere, dato che la chiesa di San Pio X non esisteva ancora. Nel 1957 in Campo profughi c’era persino il primo televisore!
Gli anni del dopoguerra erano duri per tutti, è inutile negarlo. Fino all’estate 1949 c’era ancora la tessera per il pane, la pasta e il sapone. Le spese erano molto attente: come ha scritto Renzo Valente, ‘a Pasqua si comperavano le scarpe e ogni cinque Natali il cappotto! Alcuni udinesi, rimasti senza casa perché bombardata dagli angloamericani, dovevano accontentarsi di alloggi precari, come gli esuli. Venivano abitate pure le baracche di lamiera lasciate dagli inglesi nel cosiddetto Villaggio metallico di Paderno, in Via Monte Sei Busi. Poi sono arrivate le case Fanfani e quelle, appunto per i profughi “coi schei dei Americani”, del Villaggio giuliano di via Cormòr Alto.
«Alcuni particolari mi hanno veramente colpito nelle mie interviste – ha detto Varutti – come le morti atroci nelle foibe, le fughe rocambolesche (con barchette a remi o persino a nuoto!) dalle coste istriane, lettere di familiari scomparsi amorosamente conservate dagli discendenti. Come quell’ultimo biglietto per la moglie scritto col lapis dall’impiegato dell’acquedotto Francesco Mattini di Pinguente e consegnato al figlio Vittore che riuscì a eludere le guardie titine».